
Tutto ciò che precede Pasqua, che va oltre le manifestazioni puramente consumistiche, talvolta addirittura eccessive, a cui siamo abituati, in Salento ha il sapore dell’autentico e dell’emozionante, nonostante la credenza sempre più dilagante, soprattutto nei giovani, che col tempo anche la fede si sia svuotata di senso.
Se ci si sposta a Gallipoli, però, che siate tra coloro che si considerano credenti, o tra quelli che, al contrario, guardano alla chiesa come a un’istituzione incerta e corrotta, assistere ai riti che caratterizzano la settimana santa in questa cittadina che affaccia sul mare è qualcosa in grado di suscitare ancora tanta meraviglia, non fosse altro per il silenzio surreale che aleggia per le strade, nonostante la calca di gente che le popola.
Tre giornate che segnano una sorta di exploit delle tradizioni sacre, in cui i gallipolini, ma anche tutti i salentini e turisti che si riversano in città, possono immergersi in una surreale atmosfera che vale la pena essere vissuta e raccontata.
Scriverne, parlarne, fotografare ogni passaggio dei riti serve a un unico scopo, che è quello di preservare tutte le pratiche dall’oblio totale a cui sarebbero destinate se nessuno desse loro più voce, o prestasse sguardi ed emozioni.

Giovedì
Immaginate ora Gallipoli, all’imbrunire, quando un cielo che è a metà strada tra la primavera e gli ultimi strascichi di un inverno comunque mite fa da sfondo a donne operose che allestiscono gli altari della Reposizione, i cosiddetti sepolcri. Il mare alle spalle, l’aria carica di una commistione di profumi di fiori e spighe fresche o seccate al sole, teli di lino finemente ricamati, drappi, grano germogliato in terrine o piatti a partire dalla quarta domenica di Quaresima, tutti ornamenti che incorniciano le statue del Cristo Morto, a cui i fedeli faranno visita a partire dal tardo pomeriggio.
Si tratta di un giorno molto denso di significato, evocativo a tal punto, un tempo, da vedere bandita ogni manifestazione di giubilo come la semplice accensione di una radio o televisione. Oggi è altrettanto sentito, ma senza gli estremismi e gli eccessi degli anni ’50, e vede un pellegrinaggio che dura sino a tarda notte, interrotta solo dai confratelli incappucciati che fanno rullare i tamburi e squillare le trombe, suoni cupi e improvvisi che accrescono il pathos e l’emozione.
Le chiese del centro storico di Gallipoli da visitare son quelle di San Francesco di Paola, delle Anime, del Rosario, San Francesco d’Assisi, Santa Teresa, Cattedrale di Sant’Agata, mentre nella città nuova quelle del Canneto, Sacro Cuore, San Lazzaro.
Pare che la prima Confraternita a mettere in atto la visita ai Sepolcri fu autorizzata nel 1567, una data che basta a confermare quanto antica sia questa pratica e quanto bello sia preservarne ricordo e rituali.
Venerdì
Tra i riti più significativi, emozionanti e forti rientrano quelli del venerdì santo, giorno in cui tutto è drammatizzazione, accentuazione di un dolore vissuto e che si rinnova con la stessa insolenza e forza. Tre ore prima del tramonto parte una serie di rituali che altro non è che l’espressione drammatica e penitenziale del culto: la processione della Tomba, detta “Dè l’Urnia”, da sempre organizzata dalla Confraternita del SS Crocefisso. Saranno proprio i confratelli, con sacco, cappuccio rosso e mozzetta azzurra a ripercorrere le tappe di quella passione indossando una simbolica corona di spine, mentre portano in spalla la statua del Cristo Morto. Quest’ultima è preceduta da una serie di statue, realizzate dai mastri del luogo in cartapesta, che rappresentano le varie tappe della passione, mentre i confratelli degli Angeli, vestiti con sacco, cappucci bianchi e mozzetta celeste, sorreggono la statua della Madonna Addolorata, un rito che le confraternite espletano assieme dal 1957.

(foto M.Esposito)
Sabato
Il sabato mattina, col sorgere dell’alba saluta la processione della Desolata (La Madonna Desolata), che vede la confraternita di Santa Maria della Purità portare in spalla questa splendida statua risalente al XIX secolo, preceduta da quella del Cristo morto disteso in un’urna dorata.
Un Cristo che viene pianto con la stessa partecipazione e lo stesso dolore vissuti nel privato, quando si assiste alla morte di una persona cara e vicina, e che viene portato in processione lungo tutte le vie e i crocicchi della città per tutta la notte, tra squilli di trombe e rulli lugubri di tamburi.
C’è una curiosità che vale la pena conoscere, ancora, relativa alle persone che avevano il compito di caricare e sorreggere sulle spalle le statue, pesanti e monumentali:
nel ‘900 la bara del Cristo Morto veniva condotta a spalla da uomini che indossavano abiti a strisce, caratteristiche che li facevano accomunare a piccoli pesci in dialetto salentino chiamati “sciutei”, riconoscibili proprio per piccole striature.
Per questo motivo i portantini venivano appellati “sciutei della bara”.
La tradizione, in ultimo, vuole che il rito conclusivo sia tanto straziante quanto emozionante: le due statue, quella del Cristo Morto e quella della Vergine si incontrano al largo della Purità, dinanzi alla chiesa, avvolti da una lingua di spiaggia e di mare che fa da sfondo a un saluto lungo e commosso, estremo e dolente, abbracciati da una folla che prega, prostrata e adorante, che non attende altro che una nuova e luminosa resurrezione.